Chi sono
      
Mind architect: dove la forma guida il comportamento e la logica diventa empatia.
Sono nata come progettista grafica, quando il computer era ancora una tela ruvida e il colore si stendeva pixel per pixel.
Ho iniziato con Paint, poi GIMP, e infine Photoshop, che per me fu una rivelazione: la prima volta che ho capito che un’idea poteva diventare struttura.
Non c’erano tutorial, solo tentativi, errori, notti a capire perché un’ombra sembrasse sbagliata o perché un colore “non respirasse” come doveva.
La suite Adobe è arrivata come una grammatica completa — Illustrator, Premiere, After Effects — e con lei ho imparato che il design non è solo estetica, ma architettura di percezione.
Ho iniziato a osservare come ogni interfaccia, ogni forma, ogni contrasto visivo potesse guidare un comportamento.
È lì che ho capito che il mio lavoro non era disegnare, ma costruire logiche visive.
Poi è arrivato il codice.
Il mio primo linguaggio fu Python, e da lì ho iniziato a “parlare con le macchine”.
Non fu semplice: la logica mi affascinava ma sembrava rigida, quasi fredda rispetto al mondo del design.
Eppure, riga dopo riga, ho scoperto che anche il codice è una forma di arte — solo più silenziosa, più metodica.
I miei primi bot nacquero da curiosità e necessità: automatizzare, semplificare, ordinare.
Ogni errore di sintassi era una lezione, ogni bug un modo per capire come ragionavo io, non solo la macchina.
Dopo Python, arrivò Java.
Più severo, più strutturato.
Mi ha insegnato la disciplina e il rispetto per l’ordine.
E fu proprio con Discord che le mie due anime — quella del design e quella della logica — si unirono per la prima volta.
Creare sistemi per comunità significava costruire spazi dove la forma serviva la funzione e la funzione serviva la relazione.
Ogni embed, ogni comando, ogni colore scelto aveva un significato comportamentale.
L’HTML è stato il mio ponte verso il mondo visibile del codice.
Mi ha fatto capire che un’interfaccia è un organismo, e ogni tag è un battito.
Non più solo grafica, non più solo codice: era sistema.
E io, finalmente, avevo trovato il mio linguaggio.
Negli anni ho sbagliato tanto: design troppo carichi, logiche troppo complesse, interfacce che solo io riuscivo a capire.
Ma ogni errore ha scolpito il mio modo di pensare.
Ho imparato a semplificare senza perdere profondità, a disegnare come si progetta un algoritmo, e a programmare come si costruisce un’idea visiva.
Oggi il mio lavoro è un equilibrio tra razionalità e sensibilità tecnica.
Creo sistemi, interfacce e infrastrutture che non siano solo funzionali, ma anche coerenti con le persone che le vivono.
L’estetica è diventata un linguaggio comportamentale, la logica una forma di empatia strutturata.
In fondo, non ho mai smesso di disegnare — ho solo cambiato i pennelli.
      
      
        
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          Progetto ambienti digitali dove la forma serve la funzione, e la funzione diventa relazione.